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lunedì 1 agosto 2022

Oltre le "Barricate" - Parma 1922 - Italia 2022

BARRICATE DEL 1922

Nell’estate del 1922, in seguito all’inasprirsi delle violenze fasciste contro le organizzazioni e le sedi del movimento operaio e democratico, l’Alleanza del Lavoro proclamò per il 1° agosto 1922 uno sciopero generale nazionale in “difesa delle libertà politiche e sindacali”. Contro la mobilitazione dei lavoratori si scatenò la violenza delle squadre fasciste lungo tutta la penisola.

L’Alleanza del Lavoro sospese lo sciopero il 3 agosto, ma le aggressioni aumentarono e solo in poche città fu organizzata la resistenza alle azioni delle camicie nere. Le spedizioni punitive ebbero così un totale successo con la distruzioni di circoli, cooperative, sindacati, giornali ed amministrazioni popolari.

A Parma, sola eccezione, gli sviluppi dello sciopero furono ben diversi: la città divenne teatro di una resistenza armata alle squadre fasciste che, dopo cinque giorni di combattimenti, risultò vittoriosa. I lavoratori avevano risposto compatti allo sciopero e, forti delle tradizioni locali del sindacalismo rivoluzionario, mostrarono ancora una volta grande capacità di mobilitazione e di combattività.

Con la locuzione fatti di Parma s’intende l’assedio operato dagli squadristi, comandati prima da un quadrumvirato locale e successivamente da Italo Balbo, alla città di Parma in cui si trovavano asserragliati gli Arditi del popolo e le formazioni di difesa proletaria, all’inizio dell’agosto 1922.

Nei primi giorni di agosto vennero perciò mobilitati dal PNF (Partito Nazionale Fascista) circa 10.000 uomini per l’occupazione di Parma, giunti dai paesi del parmense e dalle province limitrofe. La popolazione dell’Oltretorrente e dei rioni Naviglio e Saffi si prepara all’aggressione, innalzando barricate e scavando trincee, volendo difendere ad oltranza le sedi delle organizzazioni proletarie e di quelle centriste conoscendo le devastazioni che i fascisti avevano compiuto in altre località, come nel ravennate, guidati proprio da Italo Balbo. Mentre a livello nazionale lo sciopero si esaurisce in un fallimento completo, a Parma l’idea di resistere si radica sempre di più. Nei quartieri popolari i poteri istituzionali passano al direttorio degli Arditi del Popolo comandati da Guido Picelli. Il 6 agosto, su consiglio anche dell’ufficiale militare al comando della locale Scuola di Applicazione militare, Lodomez, ma soprattutto resisi conto dell’impossibilità di conquistare la città senza scatenare una vera e propria guerra, che avrebbe provocato una carneficina, i fascisti passarono il controllo dell’ordine pubblico all’esercito, impegnandosi a ritirarsi. Fonte: https://www.testeparlantimemorie900.it/

Sembrano davvero lontani i tempi in cui, mossi dalla forte necessità di resistere, i cittadini, i sindacati, e la politica si univano per respingere il nemico "oppressore" fascista.

Il tempo sembra aver cambiato le vicissitudini, negli ultimi anni, soprattutto a sinistra, i partiti hanno preferito dividersi, per rincorrere contenuti distanti, a volte, solo per qualche sfumatura cromatica, piuttosto che unirsi e rilanciare il Paese, insieme e da sinistra, con riforme necessarie. 

In quel 1922 a Parma gli scontri coinvolsero attivamente tutta la popolazione e venne superata ogni polemica politica tra le diverse tendenze: arditi del popolo, sindacalisti corridoniani, confederali, anarchici (Antonio Cieri comandò la resistenza del rione Naviglio), comunisti, popolari, repubblicani e socialisti combatterono, fianco a fianco, le squadre delle camicie nere.

Una lezione di UNITA' che non può essere dispersa ne dal tempo ne da facili populismi, una lezione di RESISTENZA che è utile oggi più che mai, alla vigilia di una tornata elettorale tra le più complicate ed importanti degli ultimi tempi. Una lezione di modernità da ricordare a chi si candita a Rappresentare i valori della Sinistra Riformista. 

Nelle settimane che ci dividono da questa importante tornata elettorale saranno fondamentali le nostre capacità di gurardare oltre quelle "Barricate" e di aprire le nostre sedi, e le nostre liste, a quella società civile che, da molto tempo invano, reclama un centro sinistra capace di rinnovarsi, costruendo un nuovo fronte democratico e liberale che sappia andare oltre le "Barricate", oltre la "Resistenza" per combattere nuovi "sovranismi" e facili "populismi".

Consiglio di lettura: "Oltretorrente" di Pino Cacucci.

Un abbraccio democratico,

Circolo PD Monte San Vito






mercoledì 26 gennaio 2022

Giornata internazionale della Memoria

 

GIORNO DELLA MEMORIA

Ricordare solo per un giorno i fatti legati a questa ricorrenza può essere del tutto ingeneroso, se non offensivo. Molto spesso altro non è che assolvere ad un obbligo in un modo distratto, quasi meccanicamente rituale e solo di maniera. Vedasi nella pratica quello che, ad esempio, accade anche rispetto al giorno dedicato alla violenza sulle donne: tanti propositi, tante parole spese, mentre nel concreto le morti continuano e l'oltraggio cresce. I fatti di Milano di fine anno sono paradigmatici in tal senso.

È urgente, quindi, uscire da questa mera routine e interiorizzare il senso vero di queste ricorrenze, agendo di conseguenza in modo fattivo e pienamente consapevole. La Giornata della Memoria vuole mantenere vivo il ricordo delle atrocità perpetrate dal nazifascimo verso le minoranze quali Ebrei, Rom, Sinti, individui con disabilità mentali o di altro orientamento sessuale e oppositori politici.

Tutto ciò fu possibile anche per mezzo di una campagna mediatica costruita ad hoc da Goebbels, ministro della propaganda della Germania nazionalsocialista di Hitler, con il concorso di diversi strati della società tedesca. Tale propaganda basata su falsità, su disvalori senza alcun fondamento umano, individuando nelle minoranze i fattori di debolezza e di disagio della nazione e prendendo di mira i più deboli, fece breccia in un popolo che usciva da una situazione gravosa conseguente alla sconfitta nella Grande guerra e che era provato da anni di sanzioni economiche e di indigenza. Il “caporale” Hitler con i suoi futuri gerarchi costruì il “mostro” che portò alla Seconda guerra mondiale, sacrificando sull’altare della potenza tedesca il concetto stesso di rispetto per l’umanità.

Nel 1938 anche il Mussolini in Italia emanò le leggi razziali, contribuendo attivamente in seguito alla persecuzione e alla deportazione delle minoranze, non solo per compiacere Hitler e inseguire il mito della superiorità ariana, ma anche perché l’idea di intolleranza verso i deboli e i germi del razzismo erano già insiti nell’abominevole ideologia del Fascismo stesso.

Almirante, uno dei principali difensori delle leggi razziali, nel 1962, molti anni dopo l’emanazione di quelle vergognose leggi e in piena Repubblica, sul “Corriere della sera” dichiarava :

 “Il razzismo - scriveva il futuro segretario del Msi - ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri.”

Questi è il padre politico e il riferimento della Meloni e del suo partito, FdI. A molti anni da quella dichiarazione, è, ahimè, lecito il sospetto che questo pensiero non sia stato davvero sconfessato e resta il dubbio che nelle pieghe della Destra italiana, tutt’altro che moderna, aleggino ancora pensieri e posizioni non distanti dalla retorica razzista e fascista, una retorica che, come ci dice la cronaca, spesso si concretizza in atti indegni di violenta intolleranza.

Ecco, nel ricordare il Giorno della Memoria è necessario chiedersi e verificare se oggi siano stati rimossi davvero i fondamenti ideologici che portarono al dramma delle dittature fasciste e alla tragedia del genocidio.

Solo grazie alla democrazia e ai cittadini che hanno memoria di quel tempo si può evitare di ricadere di nuovo in quell’abisso di male, ma ciò non significa che si debba abbassare la guardia o ci si possa permettere di non mantenere l’attenzione su ogni rigurgito nostalgico o su ogni atteggiamento che, con operazioni intellettualmente e consapevolmente disoneste, si vuole far passare per folkloristico, mentre contiene, più o meno latenti, i semi dell’odio e dell’intolleranza. I meccanismi della comunicazione che fanno crescere il consenso verso la destra non sono dissimili da quelli su cui si basava la propaganda nel passato: profughi e immigrati vengono additati come nemici degli Italiani, come parassiti che vivono alle nostre spalle, come responsabili del disagio economico e della povertà di molte famiglie; agitando lo spauracchio della perdita di identità nazionale, di attentato ai valori tradizionali si parla, addirittura, di sostituzione della razza e di una sorta di “meticciamento”.

Inoltre, in diverse realtà amministrate dalla destra “moderna” si emanano regolamenti per non riconoscere diritti a chi non è italiano, anche se regolare e paga le tasse che contribuiscono ai lauti stipendi degli amministratori stessi. Non entriamo poi, nel merito dello sfruttamento di persone disperate nei campi e nelle fabbriche del Nord.

Esponenti della destra italiana, anche inquadrati in formazioni come FdI e Lega, inneggiano alla possibilità di sparare sui barconi di profughi che solcano il Mediterraneo o addirittura plaudono alla morte di essere umani, colpevoli soltanto di essere “diversi” e di desiderare di vivere con dignità.

Se, veramente, vogliamo onorare il Giorno della Memoria, allora abbiamo il dovere di farci parte attiva, non solo nell’agire quotidiano e nell’esercitare la solidarietà verso i più deboli, ma anche esercitando consapevolmente il proprio diritto di cittadini in cabina elettorale, difendendo e coltivando la democrazia, al fine di evitare, un giorno, di rimpiangere di essere stati indifferenti. 

In commossa Memoria,

La Redazione

 

mercoledì 22 dicembre 2021

Contributi per la migliore politica Don Luigi Sturzo continua a parlarci…

Prima parte dell’intervista al prof. Ernesto Preziosi

Dopo l’intervista a Giorgio Benigni su Antonio Gramsci, presentiamo l’intervista su don Luigi Sturzo rivolta al prof. Ernesto Preziosi.  Nella precedente Legislatura, Preziosi è stato deputato, eletto per il PD, membro della Commissione Bilancio. Dirige il Centro di Ricerca e Studi Storici e sociali ed ha promosso Argomenti2000, associazione di amicizia politica. Tra i suoi recenti saggi: Un altro Risorgimento. Alle origini dell’Azione Cattolica per una biografia di Giovanni Acquaderni, San Paolo edizioni e la curatela di Ci vorrebbe un pensiero, Edizioni Vita e Pensiero, sui 100 anni dell’Università Cattolica. Nel 2015 è venuto al centro Carlo Urbani di Monte San Vito per presentare il suo libro Una sola è la città (Ave).  

Gentile Prof. Preziosi, grazie per il tempo dedicatoci.

Vorrei iniziare con questa domanda: sono 150 anni dalla nascita di don Sturzo. Tra le sue molte opere ed innovazioni, per cosa ricordiamo don Sturzo?

Oltre ai 150 anni dalla nascita, vorrei ricordare che due anni fa è ricorso il centenario dell’Appello ai liberi e forti del 1919, quando don Sturzo ed altri uomini hanno fondato il Partito popolare italiano. L’ importanza del richiamo ai liberi e forti va considerato sia come spinta morale che in termini di metodo. I credenti operano nei diversi contesti storici, offrendo risposte, dando vita a strumenti, che ritengono idonei a raggiungere il fine che è legato al senso stesso dell’impegno politico del cristiano: operare non già per sé o per gli interessi della Chiesa, bensì per il bene comune.

Don Sturzo nasce come un fungo? Oppure il contesto ecclesiale del tempo lo ha aiutato?

Il contesto ecclesiale è fondamentale, penso alla enciclica Rerum Novarum del 1891, prima enciclica che affronta i temi del lavoro, del capitalismo, dei diritti e doveri del lavoratore. Il papa fu Leone XIII, papa Pecci. Papa Pecci inaugura la dottrina sociale della Chiesa, dove tematiche come il lavoro, la società, lo Stato, la centralità della persona umana vengono riaffermate nel contesto della modernità figlia dei Lumi e del Romanticismo. 

Don Sturzo è passato alla storia del Novecento come fondatore del PPI, una partito di programma, non confessionale, nel gennaio del 1919. Dal punto di vista della cultura politica e dei rapporti con il movimento cattolico, cosa accade con la fondazione del PPI nel 1919?

Fondando il PPI, Sturzo mette di fatto fuori gioco i blocchi clerico-moderati e  le relative intese, iniziate già nel 1904, proseguite nelle elezioni di cinque anni dopo e nel 1913 con il Patto Gentiloni. Sturzo, sempre contrario a queste intese, con la sua iniziativa tenta di raccogliere intorno alla proposta programmatica anche quelle che sono le differenti anime del cattolicesimo italiano. 

Don Sturzo non fu solo, quando lanciò l’Appello ai liberi e forti. Quali personalità erano con lui?

Erano diverse e variegate. C’era il conte Santucci, persona ben introdotta in Vaticano e che esprime un orientamento conservatore. Accanto troviamo il murriano pratese Giovanni Bertini (eletto in Parlamento nel 1913 nel collegio di una cittadina a voi vicina, Senigallia), già aderente alla lega democratico-cristiana. Gli agrari della Sicilia sono rappresentati da Antonino Pecoraro, mentre da Rovigo viene l’avvocato Umberto Merlin organizzatore di leghe contadine e operaie. Presente anche Antonio Boggiano-Pico, espressione dell’industria siderurgica e metallurgica genovese.


Può aiutarci meglio a capire i rapporti con il movimento cattolico, con le parrocchie, ed in particolare con l’Azione Cattolica?

Stefano Cavazzoni esponente cattolico milanese, valutava come opportuno il legame del PPI con l’Azione Cattolica. Don Sturzo suonava tasti diversi, cioè quelli della opportuna distinzione. La coscienza politica di un partito nazionale- collegato da un capo all’altro d’Italia - opera non attraverso gli organismi di Azione Cattolica, ma nella coesione spirituale, nella fiducia operativa delle persone. La distinzione, più che il legame. Pur rimanendo fondamentale la formazione delle coscienze, che era ed è un compito specifico dell’Azione Cattolica.

Che idea aveva don Sturzo dei partiti politici?

Per lui, il compito specifico dei partiti politici in democrazia è quello di organizzare il corpo elettorale, prepararlo ed educarlo alla vita pubblica; di essere  intermediario tra gli organismi sociali, il potere delle amministrazione ed i cittadini; di aiutare i cittadini nella difesa dei propri diritti, indurli allo scrupoloso adempimento dei doveri pubblici, correggerne l’istinto demagogico e indirizzare al servizio del pubblico la impulsiva passionalità delle masse.

Nel prossimo post, proveremo ad attualizzare il pensiero di don Luigi Sturzo, sempre in compagnia di Ernesto Preziosi…

Per approfondire:

G. Bianchi, Dopo  Moro: Sturzo, Morcelliana, 2000

L. Ceci, Don Luigi Sturzo, il profeta coraggioso dei temi moderni, SEI, 1996

G. De Rosa, Il primo anno di vita del Partito Popolare Italiano, dalle origini al congresso di Napoli, La nuova cultura, Napoli, 1969.

A. Dessardo, Educazione e Scuola, Studium, 2021

E. Preziosi, Cattolici e presenza politica, Scholé- Morcelliana, 2020

Giandiego Carastro

martedì 30 novembre 2021

Contributi per la migliore politica: Perché Gramsci ha ancora qualcosa da dirci! Prima parte

Perché Gramsci ha  ancora qualcosa da dirci!

Prima parte dell’intervista al dott. Giorgio Benigni

Il precedente post è stato dedicato alla presentazione congiunta delle figure di Antonio Gramsci e don Luigi Sturzo.  Adesso, approfondiremo il pensiero di Antonio Gramsci, con una intervista al dott. Giorgio Benigni, analista di politica interna e internazionale, dottore di ricerca in diritto costituzionale italiano e comparato, dirigente PD nel Primo Municipio di Roma, assiduo conoscitore del pensiero di Antonio Gramsci..

Grazie, Giorgio, per aver accolto l’invito a rispondere a questa intervista. Tu hai una intensa esperienza di militante e dirigente del PD in un quartiere centrale di Roma come l’ Esquilino. Puoi parlarci brevemente della vita del tuo circolo PD nella tua realtà territoriale?

Abbiamo tenuto in piedi una comunità politica in uno dei rioni più popolosi e problematici del Primo municipio di Roma pur non avendo ormai da 8 anni, una sede fisica dove riunirci. Siamo stati tra i primi ad utilizzare le piattaforme informatiche in tempi di pandemia ed avviare una serie di incontri e confronti di livello in questa modalità. La tradizione è quella di un circolo anticonformista, dove si ritrovano persone libere che non devono obbedire o “rispondere” a niente e nessuno. Penso che in questi 18 mesi abbiamo dato vita a una sorta di scuola di politica per la qualità e quantità di interventi che abbiamo saputo mettere organizzare.

Ai giovani di oggi, come presenteresti Antonio Gramsci?

Gramsci è stato un uomo che ha cercato sempre la verità. Questo sia prima di andare in carcere che durante la prigionia. Poi è stato un figlio, un marito, un padre attentissimo alle relazioni primarie e a preservarle e proteggerle dal moloch totalitario della politica. Certo è stato un dirigente comunista, ma il suo pensiero, il suo acume, la sua profondità, la sua ricerca in grandissima parte sono sopravvissute alla fine del comunismo. Gramsci ancora oggi è l’intellettuale italiano del ‘900 più studiato nel mondo. Proprio a partire da Paesi che uno non immaginerebbe neppure come gli Stati Uniti.

 In un precedente post su questo blog riportavamo quello stralcio del documentario di Veltroni in cui si diceva che diversi giovani non conoscevano Enrico Berlinguer. A maggior ragione, forse non conoscono Gramsci..Tu hai studiato le opere ed il pensiero di Gramsci. Quali sono le parti sempreverdi del suo pensiero? 

Io l’ho studiato per passione, per corrispondenza nello stile di pensiero. Non a scuola. E’ stato una sorta di rapimento intellettuale. Penso non sia facilissimo accostarsi ai suoi scritti, non ha prodotto un’opera con un titolo, un inizio e una fine. Il suo è uno straordinario flusso di ricerca, pensiero e di esperienza di vita su cui è bello adagiare la propria mente. Ma forse è arrivato il tempo di farlo studiare anche nei programmi scolastici, nei corsi di storia e filosofia. Gramsci è un immenso teorico della politica, e faccio rientrare in questa espressione sia la filosofia che la scienza politica. Quello che per me è fondamentale è che non è un pensatore materialista: la dialettica centrale per lui non è quella servo/padrone ma quella dirigenti/diretti, non esiste nessun determinismo scientifico materialista negli avvenimenti storici, le condizioni materiali da sole non generano iniziative politiche. 

Puoi citarci qualche suo contributo, in tal senso?

Magistrale un suo articolo scritto a 26 anni sul giornale dei socialisti torinesi all’indomani dello scoppio della rivoluzione russa: “la rivoluzione contro il Capitale”, dove il Capitale con la maiuscola è il capolavoro di Carlo Marx che il giovane studente sardo vede completamente smentito dall’iniziativa russa. 

Su cosa si basa, allora, la politica per Gramsci?

Se quindi la politica non segue logiche meramente materiali su quali concetti poggia? La risposta di Gramsci è innanzitutto il partito politico, il “moderno principe”, secondo la famosissima definizione che richiama ed attualizza il pensiero di Niccolò Machiavelli. Certo, per il comunista Gramsci il partito politico è essenzialmente il partito della classe operaia ma sarebbe riduttivo pensare che sia il partito che si limita a fare gli interessi della classe operaia. Nella concezione di Gramsci il partito è quello che fa diventare la classe operaia classe dirigente. Per I meri interessi materiali della classe operaia ci sono i sindacati. E’ un’altra funzione che lui chiama “economico corporativa” per distinguerla da quella del partito che invece è “etico politica”. 

Ci sono ancora altri punti importanti del suo pensiero?

Vengo quindi al terzo grande concetto che a quasi 100 anni dalla sua elaborazione mostra ancora una vitalità e forza straordinaria: l’egemonia. Nella vulgata comune e molto anche grazie alle semplificazioni del pensiero cattolico, il concetto di egemonia è stato di fatto equiparato a quello di volontà di potenza e quindi considerato antitetico a quelli di libertà e pluralismo. Io non penso così. Egemonia, nella definizione che per la prima volta ho letto in un breve scritto di un importante dirigente del Pci, Aldo Tortorella, non è altro che “compiuta capacità di direzione”. Insomma egemonia è quando c’è piena consonanza tra dirigenti e diretti perché questi ultimi riconoscono e si riconoscono consapevolmente, chiaro, non perché manipolati, nell’azione dei dirigenti politici. Il contrario di egemonia quindi non è libertà ma è il contrario, è “dominio”, ovvero un potere esercitato dal dirigente solo con l’uso della forza e senza il consenso del diretto. Ecco, io penso che questi tre concetti, “il partito come moderno principe”, la distinzione tra la “fase economico corporativa e quella etico politica” e il concetto di egemonia siano ancora parole ricche di linfa vitale e di significato.

…continua nel prossimo post…

Giandiego Carastro

mercoledì 27 gennaio 2021

Ricordare la memoria

La “Giornata della Memoria”. In occasione della ricorrenza dell’apertura dei neri cancelli di Auschwitz che significò la possibilità di un insperato ritorno alla vita per molte anime ormai rassegnate a dare del tu alla sofferenza e alla morte e che, al tempo stesso, in una sorta di liberazione e sdoganamento dell’orrore, disvelò al mondo la tragica e disumana portata del disegno di uno sterminio voluto, scientemente pianificato e scientificamente attuato, non vuole essere mia cura ripercorrere i drammatici eventi e le tappe che portarono all’esiziale parossismo della Shoah, quanto proporre una breve riflessione sul tema stesso della memoria.

Nonostante ancora oggi vi sia chi meschinamente e contro ogni umano valore, mediante un processo in cui la disonestà intellettuale e la superficialità si nutrono rispettivamente di odio belluino e di ignoranza, insiste nello sminuire la tragicità di quegli accadimenti fino addirittura a negarli, la Storia ci consegna, indelebile e incontrovertibile, quanto è stato. La costruzione della memoria deve, di necessità, passare dalla conoscenza, mentre una conoscenza senza memoria rischia di diventare uno sterile sapere, fatalmente cristallizzato nelle pieghe del tempo come un qualcosa di avulso dalla vita e dalla nostra quotidianità e potenzialmente destinato a svuotarsi di ogni valenza emotiva e, di conseguenza, fattuale.

Quale ruolo, allora, dovrebbe avere la memoria? Per chi porta con sé il peso gravoso degli anni la memoria è la misura dell’esperienza di una vita, lo scrigno che ne custodisce i tratti e i passaggi; per i giovani, invece, questa memoria può diventare una proiezione ideale verso il futuro, il riflesso di un’esistenza ancora da narrare. Ecco, quindi, come per un’intera società, quale quella umana, la memoria debba assurgere ad algoritmo fondamentale sopra il quale realizzare ed erigere il proprio domani, modulando in un abbraccio armonico la caleidoiscopica ricchezza delle diversità.

Ma la memoria, affinché non se ne disperda l’energia evocatrice, non può essere ridotta a fredda conoscenza, quanto alimentata, sempre custodita e… ricordata, sì, ricordata!

Se mi è concessa una digressione etimologica, vorrei sottolineare come per gli antichi il cuore fosse l’organo deputato alla memoria, tanto che lo stesso verbo “ricordare” deriva dal latino cor-cordis, cioè “cuore”; ora, mi piace pensare come l’esercizio del ricordo non si risolva esclusivamente come un mero processo sinaptico di stimoli e impulsi elettrici, ma che, secondo l’accezione pur fisiologicamente errata dei nostri antenati, contempli una profonda partecipazione emotiva.

La “Giornata della Memoria”, dunque, non deve soltanto celebrare un importante anniversario o semplicemente far conoscere quanto storicamente accaduto alle nuove generazioni; la “Memoria” deve essere calata nel nostro sentire, deve compenetrare ogni particella del nostro essere, deve essere accordata al nostro cuore, perché sia davvero riferimento esemplare per realizzare quel futuro di pace che auspichiamo per i nostri figli e perché chi sarà dopo di noi non debba rivivere, anche in altre forme o con altri attori, l’oscena atrocità dell’Olocausto che ha brutalizzato milioni di vite e lo stesso concetto di umanità.

Non smettiamo mai di ricordare la memoria!

 

Prof. Auro Barabesi


giovedì 13 agosto 2020

1848-1948 "Dallo Statuto Albertino alla Costituzione della Repubblica Italiana"

Costituzione della Rapubblica Italiana
Parte III                                      

Negli anni della guerra, dopo l’armistizio con gli Alleati annunciato alla nazione l’8 settembre 1943, con la Resistenza e la ripresa dell’attività dei movimenti politici antifascisti precedentemente messi al bando dal regime di Mussolini e la successiva liberazione da esso, si giunse a maturare l’idea che lo Statuto Albertino non fosse più uno strumento adeguato per la costruzione né, soprattutto, per la cura di una società democratica.

Il 2 giugno 1946 si tenne il referendum popolare per stabilire se l’Italia dovesse mantenere come forma di governo la monarchia o se dovesse diventare una repubblica.

Per la prima volta nella storia del nostro Paese la votazione avvenne per suffragio universale, cioè con l’estensione del diritto di voto alle donne, così come era stato stabilito dai decreti legislativi luogotenenziali emanati dai governi provvisori ancora in tempo di guerra, in particolare il numero 23 del 1° febbraio 1945 introdotto su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi sotto la seconda presidenza Bonomi.

A essere più precisi, già a partire dal marzo del 1946 la componente femminile dell’elettorato italiano aveva potuto esercitare questo diritto in alcune tornate a carattere amministrativo e locale. La data del 2 giugno resta tuttavia emblematica e simbolica, perché si trattò della prima occasione in cui si adottò il suffragio universale su scala nazionale con il referendum e le contestuali elezioni politiche.

A tal proposito, in una sorta di “election day” ante litteram, Il 2 giugno, oltre al referendum che sancì la vittoria della Repubblica, gli italiani furono anche chiamati ad eleggere i 556 membri dell’Assemblea Costituente, cioè quel novello organo istituzionale che avrebbe avuto il compito di stendere una nuova Costituzione per l’Italia.

All’interno dell’Assemblea Costituente, a seguire, fu individuata una commissione formata da 75 membri e rappresentativa di tutti gli orientamenti politici con il compito di formulare i principi fondamentali del nuovo stato repubblicano, che, in riferimento ai valori della democrazia, dell’uguaglianza e della libertà, sarebbero poi confluiti nei primi dodici articoli della Costituzione.

I lavori dell’Assemblea non furono sempre agevoli, soprattutto per il delicato e onusto compito di armonizzare le diverse istanze delle varie forze politiche in campo e di giungere ad un documento che ne rappresentasse un valido compromesso e allo stesso tempo garantisse al sistema istituzionale italiano una salda tenuta contro potenziali derive autoritarie e antidemocratiche, cosa che lo Statuto Albertino, per la sua flessibilità, non era riuscito a fare.

Dopo circa un anno e mezzo di attività e di sessioni, si arrivò alla promulgazione ufficiale della Costituzione della Repubblica Italiana e alla sua entrata in vigore: era il 1° gennaio del 1948.

La Costituzione era quindi scaturita dal confronto e dalla sintesi degli orientamenti di tutti quei movimenti politici che, pur essendo sottesi a collocazioni ideologiche differente e a volte anche antitetiche, avevano come comune denominatore l’antifascismo e il riconoscimento dei principi e dei diritti democratici e civili dei cittadini come fondamenti inderogabili della nuova società italiana.

Questo passaggio è fondamentale e oggi più che mai urge rammentarlo, poiché l’antifascismo è un valore fondante della nostra società civile che, secondo i dettami costituzionalmente statuiti, ravvisa nel fascismo o anche soltanto nell’apologia di esso un reato perseguibile a norma di legge.

Quali sono le principali caratteristiche della Costituzione repubblicana?

La Costituzione Italiana è:

  • Votata dai membri dell’Assemblea Costituente eletti direttamente dal popolo.

  • Lunga, poiché prevede 139 articoli, suddivisi in tre parti (Principi fondamentali: articoli 1-12; Parte I: diritti e doveri dei cittadini, art. 13-54; Parte II: ordinamento della repubblica, art. 55-139), più le Disposizioni transitorie e finali (18 articoli).


  • Rigida, perché eventuali modifiche non possono essere operate tramite iter legislativi ordinari, ma devono passare attraverso quella che viene chiamata “procedura aggravata” per la revisione delle leggi costituzionali. La flessibilità precipua dello Statuto Albertino,


  • Democratica, perché costitutiva di una repubblica che riconosce i diritti dei cittadini e si impegna a tutelarne il benessere attraverso lo stato sociale.


Per quanto concerne l’ordinamento istituzionale, i Padri Costituenti stabilirono di adottare come forma di governo quello della Repubblica Parlamentare, sistema atto a garantire pienamente la separazione dei poteri dello Stato. Il Capo dello Stato, il Presidente della Repubblica, è la figura rappresentativa dell’unità dello Stato; il potere legislativo è affidato al Parlamento suddiviso in due camere elettive, Camera dei Deputati e Senato, quello esecutivo al governo presieduto dal Presidente del Consiglio e quello giudiziario alla magistratura.

Da quel lontano 1848, quando re Carlo Alberto di Savoia aveva voluto riconoscere alcuni, seppur limitati, diritti ai propri sudditi, passando attraverso le lotte risorgimentali, due conflitti mondiali e la barbarie della dittatura fascista, si è arrivati alla Costituzione Repubblicana del 1948, mai come oggi attuale e garante di quella libertà di cui godiamo grazie al sacrificio e all’intelletto di chi si è impegnato per fare dell’Italia un paese democratico e civile.

A quanti, in nome di una migliore efficienza dello Stato, invocano cambiamenti radicali della Costituzione, spesso in modo capzioso o per finalità piegate ad un particolarismo politico nemmeno troppo celato e potenzialmente pernicioso per la tenuta democratica del Paese, è d’obbligo ricordare come la nostra carta sia davvero foriera di valori esemplari e che, senza con questo venir meno alla necessità di leggere l’evolversi dei tempi, anche su scala globale, sarebbe sufficiente rispettarne appieno le indicazioni per avere una società ancora più funzionale ad una fattiva concretizzazione di quei diritti e di quelle libertà che essa indiscutibilmente sancisce. 

Un abbraccio Costituzionale,

La Redazione 

giovedì 6 agosto 2020

1848-1948 “Dallo Statuto Albertino alla Costituzione della Repubblica Italiana”

Parte II

Al termine del primo conflitto mondiale, l’Italia, pur risultando nel novero dei vincitori, nel corso delle trattative di pace non ottenne completamente i vantaggi vagheggiati all’inizio del conflitto e statuiti dal Patto di Londra, l’accordo a seguito del quale il nostro Paese era uscito dalla Triplice Alleanza per affiancarsi alle potenze dell’Intesa durante la guerra. Mentre in una sorta di revanscismo tutto italiano lo scontento per i mancati riconoscimenti territoriali serpeggiava nemmeno troppo latente tra le fila dei nazionalisti, cioè di coloro che più di altri avevano esercitato pressioni per la partecipazione del regno sabaudo alla Grande Guerra, il Paese andava affrontando problematiche economiche di rilevante portata, con un rincaro notevole dei prezzi dei beni di consumo e uno Stato che aveva visto aumentare vertiginosamente il proprio debito. Il ceto agricolo e la classe operaia vivevano una difficile condizione post-bellica, come dimostrano, ad esempio, gli accadimenti del biennio rosso, riflesso di una contingenza sociale assai critica, che peraltro ebbe a insistere non soltanto sul proletariato ma anche sulla piccola borghesia, non ultima quella impiegatizia. In tale clima di profonda incertezza, con gli ambienti di corte e quelli militari legati ad una visione conservatrice e i partiti moderati timorosi in prima battuta di una deriva socialista del Paese e più ancora di una potenziale rivoluzione di matrice bolscevica, fu gioco relativamente facile per un personaggio come Mussolini raccogliere quelle istanze, a dire il vero non inquadrate in un sistema di pensiero strutturato e coerente, quante magmatiche e dispersive, che si manifestavano come l’espressione del malcontento e del disagio di alcuni segmenti della società italiana di allora.

Facendo leva sugli interessi di alcuni, sulle paure di altri e soprattutto sulla frustrazione di una parte dell’opinione pubblica e della popolazione, Mussolini, vellicando la pancia della gente con una programma politico non ancora ben definito, ma già intriso di becera demagogia, di pomposa retorica e basato sulla stigmatizzazione dell’avversario, cominciò a fare proseliti tra reduci disillusi, nazionalisti delusi e individui non ben allocati nella società o ai margini di essa, raccogliendo progressivamente consenso tra diversi strati della popolazione, il tutto con l’avallo, tacito o consenziente che fosse, degli ambienti di corte e di quelle categoria politiche o sociali, come la nobiltà e l’alta borghesia, che vedevano nell’azione del futuro Duce un’occasione per contrastare la diffusione del Socialismo senza sporcarsi le mani in prima persona e con la convinzione che l’allora nascente movimento fascista si sarebbe risolto in un fenomeno se non effimero, quanto meno manipolabile o destinato ad esaurirsi su sé stesso.

Non possiamo sminuire la valenza paradigmatica di tale dinamica: mai come in questo caso la Storia ci insegna come un contesto economico fragile e un quadro sociale frammentato, se non valutati e affrontati adeguatamente attraverso un approccio democratico e civile avulso da sterili e strumentali contrapposizioni, possano configurarsi come un habitat ideale per la proliferazione di proposte populistiche, finanche inclini a derive antidemocratiche, le quali hanno come fondamenti l’individuazione di un soggetto (istituzioni, categorie sociali, stranieri, immigrati, ecc.) su cui dirottare l’astio e a cui imputare la responsabilità della propria condizione disagiata, la promessa, quasi messianica per certi versi, di un cambiamento generalizzato, millantando questo termine come latore di una panacea dall’effetto esclusivo e garantito, proferendo slogan privi di reale sostanza, ma funzionali ad una narrazione che evidentemente riesce a far presa su quanti non dispongono di mezzi intellettuali adeguati o che non riescono a vagliare con lucidità gli eventi in frangenti di crisi. A tutto questo, inoltre, si aggiunge il sostegno consapevole di chi sa di poter trarre profitto da una congiuntura in cui il disorientamento diffuso è la cifra inevitabile per molti e in ordine alla quale si lascia intendere come il ricorso all’uomo forte possa essere l’unica via percorribile per la risoluzione dei gravi problemi che attanagliano la società.

Ad ogni modo, la Storia e le cronache ci raccontano che dopo la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, Mussolini fu incaricato da re Vittorio Emanuele III di formare un nuovo esecutivo, succedendo al primo ministro Facta, il quale aveva invano atteso che il sovrano firmasse il decreto che avrebbe istituito lo stato d’assedio, condizione per poter far intervenire il regio esercito contro le camicie nere e fermare quel progetto dal sapore palesemente eversivo e minatorio. Di lì a breve Mussolini, facendo sempre ricorso a metodi violenti e illegali, utilizzò le prerogative dello Statuto Albertino per sopravanzare lo Statuto medesimo ed esautorare il ruolo del Parlamento, dapprima sfruttato e piegato ai suoi fini, poi ridotto a mero consesso privo di effettivo potere e con la sola e svilente funzione di assecondare la costruzione del regime dittatoriale. Il leader fascista era riuscito ad assicurarsi il controllo dell’istituzione parlamentare dopo l’introduzione di un nuovo sistema elettorale in chiave maggioritaria che era stato varato con la Legge Acerbo del 1923, provvedimento fortemente voluto da Mussolini stesso, ma sostenuto, come dimostrano le risultanze in sede di votazione in aula, da una parte consistente dei parlamentari. Il meccanismo di distribuzione dei seggi prevedeva che lo schieramento che avesse ottenuto almeno il 25% dei consensi, avrebbe ottenuto un premio di maggioranza pari ai 2/3 dei parlamentari. A prescindere dalla soglia indicata dalla Legge Acerbo, alle elezioni del 1924 il listone fascista si attestò sopra il 60% dei voti. Più che questa legge elettorale furono quindi i brogli e le violenze perpetrate dalle squadracce fasciste, insieme all’interesse di alcuni raggruppamenti politici avversi ai popolari e alla sinistra, a permettere al PNF, Partito Nazionale Fascista, di ottenere una schiacciante maggioranza in quella tornata elettorale e, conseguentemente, quella assoluta in Parlamento. Proprio in tale contesto si consumò il dramma del deputato socialista Giacomo Matteotti, la cui voce civile e coraggiosa denunciò gli abusi fascisti nel nobile tentativo di riportare la dialettica politica nell’alveo di un confronto davvero rispettoso dei valori democratici e civili. Superata l’ondata di indignazione che si era levata tra l’opinione pubblica italiana per la morte di Matteotti e ormai sicuro che nulla avrebbe potuto più minare la sua posizione apicale, Mussolini, in un parossismo di prepotenza oratoria, pronunciò un discorso tanto celebre quanto grave per le implicazioni che, nemmeno troppo velatamente, lasciava presagire e tramite il quale, in nome di uno Stato forte, disvelava alla nazione e al mondo la portata del suo disegno.

Con un Parlamento ormai sotto il pieno controllo fascista e l’impossibilità dell’opposizione di mettere un freno alle propulsioni antidemocratiche di Mussolini, si consumò il passaggio da ciò che ancora restava di uno Stato parlamentare ad uno Stato dittatoriale, un totalitarismo che permeò tutti gli ambiti della vita non solo politica ma anche e soprattutto civile del Paese. Le leggi fascistissime, norme giuridiche emanate tra il 1925 e il 1926, sancirono ineluttabilmente la morte della società democratica e l’avvento del regime del Duce.

Non è questa la sede per disquisire sul ruolo del re, a cui vanno comunque ascritte responsabilità fattive, nell’ascesa al potere del Fascismo, invece è importante ribadire come molti aspetti dello Statuto Albertino che fino a quel momento avevano garantito un certo margine di libertà agli Italiani e avevano altresì permesso riforme di stampo liberale, furono prontamente elusi. Si pensi alla libertà di espressione, alla soppressione di tutti i partiti a eccezione, ovviamente, di quello fascista, alla reintroduzione della pena di morte, alla costruzione di una società totalitaria integralmente controllata e gestita dal regime, all’istituzione dei tribunali speciali per i reati politici fino a giungere alla vergogna delle leggi razziali del 1938 firmate dallo stesso sovrano. In un colpo solo quei diritti civili che si erano affermati progressivamente grazie alla malleabilità dello Statuto venivano cancellati, a preludio di quella ignominiosa sodalità con i partner nazisti propedeutica alla tragedia del secondo conflitto mondiale a cui l’Italia avrebbe preso parte nel 1940.

A conti fatti la flessibilità stessa dello Statuto aveva fatto sì che esso, anche se in pieno vigore e mai abrogato, non venisse più considerato come la Stella Polare della vita legislativa italiana durante il ventennio, ma soltanto un quadro normativo sul quale sovrapporre e imporre i dettami del regime. Quelle stesse maglie larghe che nei decenni precedenti avevano consentito momenti di progresso civile e democratico della nazione italiana furono così integralmente occupate dal totalitarismo fascista praticamente fino al termine della Seconda Guerra Mondiale.

...e la storia continua...

la Redazione

giovedì 30 luglio 2020

1848-1948 “Dallo Statuto Albertino alla Costituzione della Repubblica Italiana”

Parte 1

Un secolo, cent’anni esatti, un tempo breve nel respiro del Mondo, lungo e articolato dalla prospettiva della storia dell’umanità e ancor più di quella italiana.

Nel fatidico anno 1848, l’anno delle rivoluzioni e della primavera dei popoli europei, re Carlo Alberto di Savoia, sovrano del Regno di Sardegna, primo tra i governanti di un’Italia ancora frammentata in molte unità territoriali, alcune delle quali sottoposte all’ingerenza di potenze straniere, emanava una propria Costituzione: lo Statuto Albertino.

1° gennaio 1948: in Italia entrava in vigore la nuova Costituzione di uno stato che, dopo la nera parentesi del regime fascista e la tragedia del secondo conflitto mondiale terminato meno di tre anni prima, sceglieva di mutare struttura ed organizzazione, passando dalla monarchia parlamentare ad un sistema repubblicano a seguito del referendum del 2 giugno 1946.

Questi due momenti sono fondamentali per la storia del nostro Paese. Lo Statuto Albertino, con tutte le sue limitazioni, è stato propedeutico allo sviluppo del periodo risorgimentale e all’unità d’Italia, anche se poi, nel ‘900, non rappresenterà un argine contro l’affermazione ideologica e politica del Fascismo, mentre la Costituzione del 1948 è la concretizzazione della lotta antifascista, dell’anelito alle libertà e ai diritti civili di uno Stato che finalmente diventò davvero democratico dopo gli anni drammatici della dittatura e della guerra.

Caratteristiche dello Statuto Albertino

La Costituzione Albertina era:

1) Ottriata (dal francese “octualier”), cioè concessa dall’alto dal sovrano; pur nascendo in un contesto di profondo fermento sociale per le rivendicazioni civili e patriottiche di una larga parte della popolazione, era il sovrano a offrirla ai propri sudditi. 

2)Flessibile: gli articoli dello Statuto potevano essere modificati tramite leggi ordinarie del Parlamento, quindi attraverso iter legislativi e burocratici relativamente snelli e agevoli. Questo aspetto, se per un verso ha portato all’introduzione di emendamenti in itinere, dall’altro ha permesso che lo Statuto stesso venisse in qualche modo aggirato, se non disatteso in molti punti, con l’avvento del regime dittatoriale di Mussolini e le leggi fascistissime. 

3) Corta, cioè prevede un numero contenuto di articoli e soprattutto pochi diritti.

Per quanto concerne la struttura dello Stato, secondo i dettami dello Statuto Albertino quella sabauda si presentava come una monarchia costituzionale pura: il sovrano, infatti, esercitava allo stesso tempo la funzione di Capo dello Stato e di Capo del Governo, partecipando, quindi, al potere esecutivo, legislativo. Il re aveva anche il diritto di concedere la grazia ai detenuti e nominava i magistrati. Come si evince da ciò, ancora non si può parlare di separazione dei poteri.

Il sistema parlamentare era bicamerale, cioè composto da due camere:

1)Camera dei Deputati, organismo elettivo: i rappresentanti venivano eletti tramite suffragio ristretto. Il diritto di voto era prerogativa di una piccola parte della società del Regno di Sardegna. Soltanto i nobili e i cittadini benestanti percettori di redditi elevati potevano votare. Le donne erano escluse e sarebbero state ammesse a questo fondamentale diritto di cittadinanza soltanto in occasione del referendum del 1946.

2) Regio Senato: era composto da senatori nominati direttamente dal re e la carica era a vita.

Il 1848, come si accennava sopra, fu un anno fondamentale per la storia europea e italiana.

L’emanazione dello Statuto Albertino, in qualche modo, rappresentò il preludio a quella fase del processo risorgimentale che portò all’unità d’Italia.

Tra il 1848 e il 1849 si svolse quella che gli storici chiamano Prima Guerra di Indipendenza. Mentre in molti Paesi d’Europa si stavano verificando sollevazioni popolari, per la verità espressione delle rivendicazioni politiche e sociali della borghesia, re Carlo Alberto ruppe gli indugi e dichiarò guerra all’Impero Asburgico, che controllava il territorio del Lombardo-Veneto.

Il conflitto, nonostante la partecipazione di patrioti di tutta la penisola, non ultimo Giuseppe Garibaldi, non si risolse a favore del Regno di Sardegna e Carlo Alberto, dopo la decisiva sconfitta nella battaglia di Novara, assumendosi la responsabilità del fallimento, abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II.

Il Piemonte restò comunque l’unico Stato della penisola libero da ingerenze straniere e con un ordinamento relativamente liberale. Già l’indirizzo del governo guidato da Massimo D’Azeglio, che peraltro introdusse nuove leggi a limitare i privilegi di clero e aristocrazia, evidenziò come il regno sabaudo fosse avviato ad una stagione di riforme e cambiamenti che vennero poi promossi dall’esecutivo presieduto da Camillo Benso conte di Cavour, politico di estrazione appunto liberale, che si pose l’obiettivo di rendere il regno sabaudo uno Stato moderno e, negli ovvi limiti, di respiro internazionale.

Dopo aver attuato delle riforme interne, tese soprattutto a potenziare le infrastrutture del Paese e a renderne l’economia più competitiva, in politica estera, con la partecipazione alla Guerra di Crimea al fianco di Inghilterra e Francia, Cavour si ritagliò uno spazio nel panorama europeo, dando visibilità internazionale alla questione dell’unità di Italia.

Di lì a poco la Seconda Guerra di Indipendenza, 1859-1861, portò alla formazione del primo nucleo dell’Italia unita.

Dopo la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia, 17 marzo 1861, la valenza dello Statuto Albertino fu estesa a tutto il Paese, tuttavia il cammino di armonizzazione delle differenze culturali, sociali e antropologiche della penisola non fu privo di difficoltà, poiché le problematiche da affrontare erano molteplici, dall’analfabetismo alle tante varianti dialettali della penisola, passando per il divario economico tra Nord e Sud.

Nel primo Parlamento del Regno d’Italia si formarono due schieramenti politici principali, la Destra storica, erede del pensiero di Cavour, che governerà il Paese dal 1861 fino al 1876, e la Sinistra storica, i cui rappresentanti si riconoscevano negli ideali progressisti, democratici e mazziniani.

La Destra storica, attraverso l’introduzione di nuove imposte, soprattutto indirette, che gravarono particolarmente sulle fasce più deboli della popolazione, raggiunse il pareggio di bilancio, ma non riuscì a soddisfare la richiesta di riforme sociali, in quanto tale esecutivo era soprattutto espressione della borghesia più agiata e in questo contesto il diritto di voto, su base censitaria, era ancora limitato ad una esigua percentuale di cittadini.

Ad ogni modo, la natura flessibile dello Statuto permise l’introduzione di variazioni al sistema politico, sociale e civile italiano attraverso leggi ordinarie, senza quindi la necessità di dover riscrivere gli articoli dello Statuto medesimo. Non solo, lo stesso ruolo del sovrano nel tempo andò progressivamente virando verso una funzione di natura più istituzionale e rappresentativa che non fattiva. In sostanza, possiamo parlare di evoluzione parlamentare e di crescita di importanza del ruolo esecutivo del Governo.

Per quanto concerne l’evoluzione dello Stato, nonostante gli esecutivi liberali si fossero già posti il problema dell’istruzione, tanto che una prima riforma in tal senso era stata varata nel 1859 (Legge Casati), è con il governo della Sinistra storica che assistiamo a interventi più incisivi in campo sociale, in primis nella lotta contro l’analfabetismo. Nel 1877, infatti, venne approvata la Legge Coppino che rendeva obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare, mentre qualche anno più tardi, nel 1882, il diritto di voto, seppur ancora vincolato al censo, venne esteso ad un numero maggiore di cittadini, dal cui novero, tuttavia, risultavano ancora esclusi analfabeti, nullatenenti e le donne. Questo processo di allargamento della platea degli aventi diritto di voto trovò una più fattiva concretizzazione nel 1912, quando con l’esecutivo Giolitti si stabilì la concessione del suffragio universale maschile senza vincoli di censo né di istruzione.

Negli ultimi anni dell’800, culminati con l’attentato a re Umberto I, a fronte di un forte malcontento popolare, cui contribuì anche l’andamento della politica colonialista in Africa, e delle manifestazioni della classe operaia, gli esecutivi che si susseguirono attuarono, ove più ove meno, una politica spesso repressiva; in ogni caso, pur in un quadro socio-politico agitato e taluni frangenti drammatico, in questo periodo il cammino verso l’allargamento dei diritti civili iniziato con l’emanazione dello Statuto Albertino continuò, come testimoniano la concessione del diritto di sciopero e l’abolizione della pena di morte (Codice Zanardelli) che sarà successivamente ripristinata con l’avvento del regime fascista che, pur mantenendo formalmente lo Statuto medesimo, andrà limitando e soffocando le libertà dei cittadini italiani.

Come poi vedremo, le conseguenze della Grande Guerra, a cui l’Italia partecipò a partire dal 1915, avranno un ruolo determinante nella preparazione di un terreno fertile per l’avvento del Fascismo.

E la storia continua.... 

La Redazione


venerdì 24 luglio 2020

Un Percorso nella Storia, più informati e più liberi

UN PERCORSO NELLA STORIA


Il Mondo in cui viviamo è complesso: un evento che accade nella parte più remota del Mondo provoca effetti negativi e/o positivi anche da noi.
Il ‘900 è stato caratterizzato, geopoliticamente, da due blocchi che determinavano la cosiddetta “guerra fredda”: il blocco occidentale e il blocco dell’est.
Questa configurazione del Mondo ha, in generale, garantito una stabilità e un certo sviluppo del Mondo.
La nascita dell’UnioneEuropea ha garantito la stabilizzazione dei rapporti tra i paesi europei e la crescita di tutti i paesi, portando benessere alle popolazioni e diritti.
Negli ultimi quarant’anni la configurazione del Mondo è cambiata e con l’avvento dei sistemi di comunicazione globali questi cambiamenti hanno accellerato i processi di trasformazione dell’economia e della politica.

Bisogna tenere presente questo nuovo scenario!

Questa breve introduzione è per comprendere la nuova complessità con cui la politica si deve confrontare ed operare negli interessi dei cittadini.
La politica è obbligata ad essere chiara nei confronti dei cittadini e capace di elevare il livello di conoscenza degli stessi, per dar loro modo di comprendere e decidere.
Giocare sul malessere, promettendo di tutto e di più salvo poi non mantenere le promesse e dare le colpe a “mitologiche” forze esterne (come fanno molte forze politiche) è un imbroglio!
Il circolo PD di Monte San Vito propone un ciclo di pubblicazioni di spunti sul percorso che ha portato l’Italia dal 1848 ai giorni nostri.
Vogliamo dare un piccolo contributo a tutti i cittadini per comprendere dove siamo, come ci siamo arrivati e cosa dobbiamo aspettarci.

UN CITTADINO INFORMATO È UN CITTADINO LIBERO!!

Da giovedì 30 Luglio, e a cadenza settimanale, verrà pubblicato un post su questo tema.
Un ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato, con il proprio tempo e le proprie competenze, a dar vita a questa iniziativa!
Invitiamo tutti alla lettura, specialmente i più GIOVANI, futuro del nostro Paese!!

Un abbraccio "storico",
La Redazione