giovedì 6 agosto 2020

1848-1948 “Dallo Statuto Albertino alla Costituzione della Repubblica Italiana”

Parte II

Al termine del primo conflitto mondiale, l’Italia, pur risultando nel novero dei vincitori, nel corso delle trattative di pace non ottenne completamente i vantaggi vagheggiati all’inizio del conflitto e statuiti dal Patto di Londra, l’accordo a seguito del quale il nostro Paese era uscito dalla Triplice Alleanza per affiancarsi alle potenze dell’Intesa durante la guerra. Mentre in una sorta di revanscismo tutto italiano lo scontento per i mancati riconoscimenti territoriali serpeggiava nemmeno troppo latente tra le fila dei nazionalisti, cioè di coloro che più di altri avevano esercitato pressioni per la partecipazione del regno sabaudo alla Grande Guerra, il Paese andava affrontando problematiche economiche di rilevante portata, con un rincaro notevole dei prezzi dei beni di consumo e uno Stato che aveva visto aumentare vertiginosamente il proprio debito. Il ceto agricolo e la classe operaia vivevano una difficile condizione post-bellica, come dimostrano, ad esempio, gli accadimenti del biennio rosso, riflesso di una contingenza sociale assai critica, che peraltro ebbe a insistere non soltanto sul proletariato ma anche sulla piccola borghesia, non ultima quella impiegatizia. In tale clima di profonda incertezza, con gli ambienti di corte e quelli militari legati ad una visione conservatrice e i partiti moderati timorosi in prima battuta di una deriva socialista del Paese e più ancora di una potenziale rivoluzione di matrice bolscevica, fu gioco relativamente facile per un personaggio come Mussolini raccogliere quelle istanze, a dire il vero non inquadrate in un sistema di pensiero strutturato e coerente, quante magmatiche e dispersive, che si manifestavano come l’espressione del malcontento e del disagio di alcuni segmenti della società italiana di allora.

Facendo leva sugli interessi di alcuni, sulle paure di altri e soprattutto sulla frustrazione di una parte dell’opinione pubblica e della popolazione, Mussolini, vellicando la pancia della gente con una programma politico non ancora ben definito, ma già intriso di becera demagogia, di pomposa retorica e basato sulla stigmatizzazione dell’avversario, cominciò a fare proseliti tra reduci disillusi, nazionalisti delusi e individui non ben allocati nella società o ai margini di essa, raccogliendo progressivamente consenso tra diversi strati della popolazione, il tutto con l’avallo, tacito o consenziente che fosse, degli ambienti di corte e di quelle categoria politiche o sociali, come la nobiltà e l’alta borghesia, che vedevano nell’azione del futuro Duce un’occasione per contrastare la diffusione del Socialismo senza sporcarsi le mani in prima persona e con la convinzione che l’allora nascente movimento fascista si sarebbe risolto in un fenomeno se non effimero, quanto meno manipolabile o destinato ad esaurirsi su sé stesso.

Non possiamo sminuire la valenza paradigmatica di tale dinamica: mai come in questo caso la Storia ci insegna come un contesto economico fragile e un quadro sociale frammentato, se non valutati e affrontati adeguatamente attraverso un approccio democratico e civile avulso da sterili e strumentali contrapposizioni, possano configurarsi come un habitat ideale per la proliferazione di proposte populistiche, finanche inclini a derive antidemocratiche, le quali hanno come fondamenti l’individuazione di un soggetto (istituzioni, categorie sociali, stranieri, immigrati, ecc.) su cui dirottare l’astio e a cui imputare la responsabilità della propria condizione disagiata, la promessa, quasi messianica per certi versi, di un cambiamento generalizzato, millantando questo termine come latore di una panacea dall’effetto esclusivo e garantito, proferendo slogan privi di reale sostanza, ma funzionali ad una narrazione che evidentemente riesce a far presa su quanti non dispongono di mezzi intellettuali adeguati o che non riescono a vagliare con lucidità gli eventi in frangenti di crisi. A tutto questo, inoltre, si aggiunge il sostegno consapevole di chi sa di poter trarre profitto da una congiuntura in cui il disorientamento diffuso è la cifra inevitabile per molti e in ordine alla quale si lascia intendere come il ricorso all’uomo forte possa essere l’unica via percorribile per la risoluzione dei gravi problemi che attanagliano la società.

Ad ogni modo, la Storia e le cronache ci raccontano che dopo la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, Mussolini fu incaricato da re Vittorio Emanuele III di formare un nuovo esecutivo, succedendo al primo ministro Facta, il quale aveva invano atteso che il sovrano firmasse il decreto che avrebbe istituito lo stato d’assedio, condizione per poter far intervenire il regio esercito contro le camicie nere e fermare quel progetto dal sapore palesemente eversivo e minatorio. Di lì a breve Mussolini, facendo sempre ricorso a metodi violenti e illegali, utilizzò le prerogative dello Statuto Albertino per sopravanzare lo Statuto medesimo ed esautorare il ruolo del Parlamento, dapprima sfruttato e piegato ai suoi fini, poi ridotto a mero consesso privo di effettivo potere e con la sola e svilente funzione di assecondare la costruzione del regime dittatoriale. Il leader fascista era riuscito ad assicurarsi il controllo dell’istituzione parlamentare dopo l’introduzione di un nuovo sistema elettorale in chiave maggioritaria che era stato varato con la Legge Acerbo del 1923, provvedimento fortemente voluto da Mussolini stesso, ma sostenuto, come dimostrano le risultanze in sede di votazione in aula, da una parte consistente dei parlamentari. Il meccanismo di distribuzione dei seggi prevedeva che lo schieramento che avesse ottenuto almeno il 25% dei consensi, avrebbe ottenuto un premio di maggioranza pari ai 2/3 dei parlamentari. A prescindere dalla soglia indicata dalla Legge Acerbo, alle elezioni del 1924 il listone fascista si attestò sopra il 60% dei voti. Più che questa legge elettorale furono quindi i brogli e le violenze perpetrate dalle squadracce fasciste, insieme all’interesse di alcuni raggruppamenti politici avversi ai popolari e alla sinistra, a permettere al PNF, Partito Nazionale Fascista, di ottenere una schiacciante maggioranza in quella tornata elettorale e, conseguentemente, quella assoluta in Parlamento. Proprio in tale contesto si consumò il dramma del deputato socialista Giacomo Matteotti, la cui voce civile e coraggiosa denunciò gli abusi fascisti nel nobile tentativo di riportare la dialettica politica nell’alveo di un confronto davvero rispettoso dei valori democratici e civili. Superata l’ondata di indignazione che si era levata tra l’opinione pubblica italiana per la morte di Matteotti e ormai sicuro che nulla avrebbe potuto più minare la sua posizione apicale, Mussolini, in un parossismo di prepotenza oratoria, pronunciò un discorso tanto celebre quanto grave per le implicazioni che, nemmeno troppo velatamente, lasciava presagire e tramite il quale, in nome di uno Stato forte, disvelava alla nazione e al mondo la portata del suo disegno.

Con un Parlamento ormai sotto il pieno controllo fascista e l’impossibilità dell’opposizione di mettere un freno alle propulsioni antidemocratiche di Mussolini, si consumò il passaggio da ciò che ancora restava di uno Stato parlamentare ad uno Stato dittatoriale, un totalitarismo che permeò tutti gli ambiti della vita non solo politica ma anche e soprattutto civile del Paese. Le leggi fascistissime, norme giuridiche emanate tra il 1925 e il 1926, sancirono ineluttabilmente la morte della società democratica e l’avvento del regime del Duce.

Non è questa la sede per disquisire sul ruolo del re, a cui vanno comunque ascritte responsabilità fattive, nell’ascesa al potere del Fascismo, invece è importante ribadire come molti aspetti dello Statuto Albertino che fino a quel momento avevano garantito un certo margine di libertà agli Italiani e avevano altresì permesso riforme di stampo liberale, furono prontamente elusi. Si pensi alla libertà di espressione, alla soppressione di tutti i partiti a eccezione, ovviamente, di quello fascista, alla reintroduzione della pena di morte, alla costruzione di una società totalitaria integralmente controllata e gestita dal regime, all’istituzione dei tribunali speciali per i reati politici fino a giungere alla vergogna delle leggi razziali del 1938 firmate dallo stesso sovrano. In un colpo solo quei diritti civili che si erano affermati progressivamente grazie alla malleabilità dello Statuto venivano cancellati, a preludio di quella ignominiosa sodalità con i partner nazisti propedeutica alla tragedia del secondo conflitto mondiale a cui l’Italia avrebbe preso parte nel 1940.

A conti fatti la flessibilità stessa dello Statuto aveva fatto sì che esso, anche se in pieno vigore e mai abrogato, non venisse più considerato come la Stella Polare della vita legislativa italiana durante il ventennio, ma soltanto un quadro normativo sul quale sovrapporre e imporre i dettami del regime. Quelle stesse maglie larghe che nei decenni precedenti avevano consentito momenti di progresso civile e democratico della nazione italiana furono così integralmente occupate dal totalitarismo fascista praticamente fino al termine della Seconda Guerra Mondiale.

...e la storia continua...

la Redazione

mercoledì 5 agosto 2020

Beirut, dalla deriva economica al dramma !

Beirut, distrutta nello spirito ancor più che nelle mura. La capitale del Libano è stata per anni custode di una lunga storia cosmopolita, oltre che importante centro culturale ed accademico. Ricchezza esposta, sbandierata a simbolo di un avvenente sfarzosità da far impallidire le maggiori capitali europee, era anche per questo denominata la Parigi del Medio Oriente. Gli anni Sessanta hanno rappresentato il periodo del suo massimo sviluppo economico, simbolo di quel mondo in continua rincorsa verso un economia arida, viscida, che porta guadagni, molti, per alcuni ma non produce sviluppo sociale. In altre parole le masse hanno sete e fame di cultura e la coltivano fino a quando essa non è distratta da fame e sete reale, fisica, biologica, in tutta la sua drammaticità.
La crisi economica del Libano affonda le sue radici in decenni di corruzione sistemica e di malgoverno della classe politica al potere dalla fine della guerra civile (1990). I libanesi hanno organizzato proteste di massa per chiedere un cambiamento politico radicale, ma poche delle loro istanze sono state soddisfatte, difatto la situazione economica è costantemente peggiorata dall'autunno scorso.

La crisi economica e sociale che sta attraversando il paese ha raggiunto livelli altissimi nell'ultimo periodo, e le tensioni tra le varie confessioni religiose sono oggi più forti che mai. Siamo inoltre a soli pochi giorni dal verdetto sull'attentato del 2005 in cui fu ucciso il premier Rafiq Hariri, azione per il quale sono sospettati alcuni membri Hezbollah (ma questa è un altra storia.... forse).

Come se non bastasse il Covid, che non attenua la sua diffusione e che si aggiunge a questa forte crisi finanziaria mai vissuta prima, nemmeno durante le guerre, che vede le sue origini in un paese che non produce nulla e importa tutto ciò che consuma.

Paradossale etichettare quella spaventosa esplosione come figlia del fato, Beirut ed i suoi Silos bianchi del porto erano sopravvissuti a 15 anni di guerra civile ed ai bombardamenti israeliani. Una tragedia che merita indagini serie e verità.

È ancora difficile immaginare un bilancio credibile dell'incidente al porto. Notizie contrastanti parlano di "oltre 100 morti" e più di 3000 feriti. Ed è a quelle vittime ed al dramma di quella gente che dobbiamo, a nostro avviso, un mesto silenzio, evitando, almeno in queste prime ore, ogni forma di analisi, da quella più criminale alla semplice e tragica "fatalità".

Verrà il tempo delle analisi e dei colpevoli, in genere sempre tanti ed illusoriamente "presunti", ora è tempo di silenzio, in rispetto del dolore, e di azione, in soccorso di quella gente.

Un abbraccio avvilito,

la Redazione



domenica 2 agosto 2020

Bologna non dimentica, noi non dimentichiamo

A Bologna l’orologio segna le 10:15. 
Un uomo entra nella sala d’attesa della stazione con una grossa valigia. L’appoggia e se ne va. 
Alle 10:25 quella che un istante prima era una stazione è un campo di battaglia. 
23 i kg di esplosivo contenuti in quella valigia. Il boato si è sentito in tutta la città e da ogni angolo di Bologna si può vedere il fungo nero che avvolge per intero l’area, come un mantello.
Per due minuti c’è solo silenzio. Quando la polvere cala su quel che rimane della stazione, è evidente l’orrore: 85 i morti e oltre 200 i feriti. 
La strage di Bologna è l’atto terroristico più grave della nostra Repubblica, uno degli ultimi gravissimi atti della strategia della tensione degli anni di Piombo. Anni in cui l’estrema destra aveva l’obiettivo di provocare lo stato di emergenza e far sentire tutti in pericolo, per minare la democrazia e instaurare un regime autoritario. 
A 40 anni di distanza c’è una verità giudiziaria, la condanna degli esecutori e la chiara ed evidente matrice neofascista dei terroristi. 
I mandanti della strage, però, non sono mai stati individuati. 
Ed è una verità che va cercata e conquistata. Ancora oggi. 
Lo si deve alle vittime, ai loro famigliari, e a chi crede profondamente nella nostra Democrazia antifascista.

"Dalle pagina facebook del Partito Democratico."

Un abbraccio commosso 
La Redazione