Al termine del primo conflitto
mondiale, l’Italia, pur risultando nel novero dei vincitori, nel corso delle
trattative di pace non ottenne completamente i vantaggi vagheggiati all’inizio
del conflitto e statuiti dal Patto di Londra, l’accordo a seguito del quale il
nostro Paese era uscito dalla Triplice Alleanza per affiancarsi alle potenze
dell’Intesa durante la guerra. Mentre in una sorta di revanscismo tutto
italiano lo scontento per i mancati riconoscimenti territoriali serpeggiava
nemmeno troppo latente tra le fila dei nazionalisti, cioè di coloro che più di
altri avevano esercitato pressioni per la partecipazione del regno sabaudo alla
Grande Guerra, il Paese andava affrontando problematiche economiche di
rilevante portata, con un rincaro notevole dei prezzi dei beni di consumo e uno
Stato che aveva visto aumentare vertiginosamente il proprio debito. Il ceto
agricolo e la classe operaia vivevano una difficile condizione post-bellica,
come dimostrano, ad esempio, gli accadimenti del biennio rosso, riflesso di una
contingenza sociale assai critica, che peraltro ebbe a insistere non soltanto
sul proletariato ma anche sulla piccola borghesia, non ultima quella
impiegatizia. In tale clima di profonda incertezza, con gli ambienti di corte e
quelli militari legati ad una visione conservatrice e i partiti moderati
timorosi in prima battuta di una deriva socialista del Paese e più ancora di
una potenziale rivoluzione di matrice bolscevica, fu gioco relativamente facile
per un personaggio come Mussolini raccogliere quelle istanze, a dire il vero
non inquadrate in un sistema di pensiero strutturato e coerente, quante
magmatiche e dispersive, che si manifestavano come l’espressione del
malcontento e del disagio di alcuni segmenti della società italiana di allora.
Facendo leva sugli interessi
di alcuni, sulle paure di altri e soprattutto sulla frustrazione di una parte
dell’opinione pubblica e della popolazione, Mussolini, vellicando la pancia
della gente con una programma politico non ancora ben definito, ma già intriso
di becera demagogia, di pomposa retorica e basato sulla stigmatizzazione
dell’avversario, cominciò a fare proseliti tra reduci disillusi, nazionalisti
delusi e individui non ben allocati nella società o ai margini di essa,
raccogliendo progressivamente consenso tra diversi strati della popolazione, il
tutto con l’avallo, tacito o consenziente che fosse, degli ambienti di corte e
di quelle categoria politiche o sociali, come la nobiltà e l’alta borghesia,
che vedevano nell’azione del futuro Duce un’occasione per contrastare la
diffusione del Socialismo senza sporcarsi le mani in prima persona e con la
convinzione che l’allora nascente movimento fascista si sarebbe risolto in un
fenomeno se non effimero, quanto meno manipolabile o destinato ad esaurirsi su
sé stesso.
Non possiamo sminuire la valenza paradigmatica di tale dinamica: mai come in questo caso la Storia ci insegna come un contesto economico fragile e un quadro sociale frammentato, se non valutati e affrontati adeguatamente attraverso un approccio democratico e civile avulso da sterili e strumentali contrapposizioni, possano configurarsi come un habitat ideale per la proliferazione di proposte populistiche, finanche inclini a derive antidemocratiche, le quali hanno come fondamenti l’individuazione di un soggetto (istituzioni, categorie sociali, stranieri, immigrati, ecc.) su cui dirottare l’astio e a cui imputare la responsabilità della propria condizione disagiata, la promessa, quasi messianica per certi versi, di un cambiamento generalizzato, millantando questo termine come latore di una panacea dall’effetto esclusivo e garantito, proferendo slogan privi di reale sostanza, ma funzionali ad una narrazione che evidentemente riesce a far presa su quanti non dispongono di mezzi intellettuali adeguati o che non riescono a vagliare con lucidità gli eventi in frangenti di crisi. A tutto questo, inoltre, si aggiunge il sostegno consapevole di chi sa di poter trarre profitto da una congiuntura in cui il disorientamento diffuso è la cifra inevitabile per molti e in ordine alla quale si lascia intendere come il ricorso all’uomo forte possa essere l’unica via percorribile per la risoluzione dei gravi problemi che attanagliano la società.
Ad ogni modo, la Storia e le cronache ci raccontano che dopo la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, Mussolini fu incaricato da re Vittorio Emanuele III di formare un nuovo esecutivo, succedendo al primo ministro Facta, il quale aveva invano atteso che il sovrano firmasse il decreto che avrebbe istituito lo stato d’assedio, condizione per poter far intervenire il regio esercito contro le camicie nere e fermare quel progetto dal sapore palesemente eversivo e minatorio. Di lì a breve Mussolini, facendo sempre ricorso a metodi violenti e illegali, utilizzò le prerogative dello Statuto Albertino per sopravanzare lo Statuto medesimo ed esautorare il ruolo del Parlamento, dapprima sfruttato e piegato ai suoi fini, poi ridotto a mero consesso privo di effettivo potere e con la sola e svilente funzione di assecondare la costruzione del regime dittatoriale. Il leader fascista era riuscito ad assicurarsi il controllo dell’istituzione parlamentare dopo l’introduzione di un nuovo sistema elettorale in chiave maggioritaria che era stato varato con la Legge Acerbo del 1923, provvedimento fortemente voluto da Mussolini stesso, ma sostenuto, come dimostrano le risultanze in sede di votazione in aula, da una parte consistente dei parlamentari. Il meccanismo di distribuzione dei seggi prevedeva che lo schieramento che avesse ottenuto almeno il 25% dei consensi, avrebbe ottenuto un premio di maggioranza pari ai 2/3 dei parlamentari. A prescindere dalla soglia indicata dalla Legge Acerbo, alle elezioni del 1924 il listone fascista si attestò sopra il 60% dei voti. Più che questa legge elettorale furono quindi i brogli e le violenze perpetrate dalle squadracce fasciste, insieme all’interesse di alcuni raggruppamenti politici avversi ai popolari e alla sinistra, a permettere al PNF, Partito Nazionale Fascista, di ottenere una schiacciante maggioranza in quella tornata elettorale e, conseguentemente, quella assoluta in Parlamento. Proprio in tale contesto si consumò il dramma del deputato socialista Giacomo Matteotti, la cui voce civile e coraggiosa denunciò gli abusi fascisti nel nobile tentativo di riportare la dialettica politica nell’alveo di un confronto davvero rispettoso dei valori democratici e civili. Superata l’ondata di indignazione che si era levata tra l’opinione pubblica italiana per la morte di Matteotti e ormai sicuro che nulla avrebbe potuto più minare la sua posizione apicale, Mussolini, in un parossismo di prepotenza oratoria, pronunciò un discorso tanto celebre quanto grave per le implicazioni che, nemmeno troppo velatamente, lasciava presagire e tramite il quale, in nome di uno Stato forte, disvelava alla nazione e al mondo la portata del suo disegno.
Con un Parlamento ormai sotto
il pieno controllo fascista e l’impossibilità dell’opposizione di mettere un
freno alle propulsioni antidemocratiche di Mussolini, si consumò il passaggio
da ciò che ancora restava di uno Stato parlamentare ad uno Stato dittatoriale,
un totalitarismo che permeò tutti gli ambiti della vita non solo politica ma
anche e soprattutto civile del Paese. Le leggi fascistissime, norme giuridiche
emanate tra il 1925 e il 1926, sancirono ineluttabilmente la morte della
società democratica e l’avvento del regime del Duce.
Non è questa la sede per
disquisire sul ruolo del re, a cui vanno comunque ascritte responsabilità
fattive, nell’ascesa al potere del Fascismo, invece è importante ribadire come
molti aspetti dello Statuto Albertino che fino a quel momento avevano garantito
un certo margine di libertà agli Italiani e avevano altresì permesso riforme di
stampo liberale, furono prontamente elusi. Si pensi alla libertà di
espressione, alla soppressione di tutti i partiti a eccezione, ovviamente, di
quello fascista, alla reintroduzione della pena di morte, alla costruzione di
una società totalitaria integralmente controllata e gestita dal regime,
all’istituzione dei tribunali speciali per i reati politici fino a giungere
alla vergogna delle leggi razziali del 1938 firmate dallo stesso sovrano. In un
colpo solo quei diritti civili che si erano affermati progressivamente grazie
alla malleabilità dello Statuto venivano cancellati, a preludio di quella
ignominiosa sodalità con i partner nazisti propedeutica alla tragedia del
secondo conflitto mondiale a cui l’Italia avrebbe preso parte nel 1940.
A conti fatti la flessibilità
stessa dello Statuto aveva fatto sì che esso, anche se in pieno vigore e mai
abrogato, non venisse più considerato come la Stella Polare della vita
legislativa italiana durante il ventennio, ma soltanto un quadro normativo sul
quale sovrapporre e imporre i dettami del regime. Quelle stesse maglie larghe
che nei decenni precedenti avevano consentito momenti di progresso civile e
democratico della nazione italiana furono così integralmente occupate dal totalitarismo
fascista praticamente fino al termine della Seconda Guerra Mondiale.
...e la storia continua...
la Redazione